Eutanasia, Gigli: «La vita per noi è importante fino all’ultimo respiro»

Articolo pubblicato su “La Voce della Vita” Ed. Aprile 2016

Il mese scorso il Parlamento ha incardinato tra le varie proposte di legge alcuni atti sul tema eutanasia. La politica, l’associazionismo e l’opinione pubblica si sono divisi tra favorevoli e contrari. Due poli opposti, che rispondono a due diverse concezioni del valore della vita, hanno iniziato a confrontarsi. Tra questi una voce è emersa sulle altre: il Deputato di Democrazia Solidale – Centro Democratico e Presidente del Movimento per la Vita, Gianluigi Gigli, da sempre impegnato sul fronte etico, si sta spendendo per questa ennesima battaglia a difesa della vita. Perché la vita, per noi, è importante fino all’ultimo respiro.

Abbiamo incontrato il Presidente Gigli:

M.:Agli inizi di marzo sono stati incardinati alla Camera quattro disegni di legge che pongono al centro della discussione il tema dell’Eutanasia. Inizierà un duro e travagliato confronto fuori e all’interno del Parlamento: qual è, secondo Lei, la migliore strategia per ribadire che la Vita è preziosa e va difesa anche davanti alla sofferenza?

G.: In realtà le proposte presentate per l’introduzione dell’eutanasia sono ben 6, anche se alcune di esse in parte si sovrappongono. Per quanto riguarda invece la strategia per opporvisi, essa non può essere primariamente parlamentare, ma bensì culturale. In parlamento, infatti, la battaglia sarebbe già persa, se non si levasse nel Paese una resistenza morale contro questo imbarbarimento dei rapporti sociali e contro la presunta perdita di dignità nella fase terminale della vita. Occorre avviare da subito una poderosa opera di prevenzione, realizzando una campagna popolare per prendere le distanze da questi progetti di legge, per ribadire i fondamenti dell’ordinamento giuridico italiano, per riproporre il valore, il significato e la dignità di ogni vita umana, comprese quelle dei gravi disabili e dei malati terminali. Occorre anche per chiedere di migliorare gli interventi socialiutili aevitare la richiesta eutanasica: sostenendo le famiglie con pazienti gravi, migliorando la rete per le cure palliative, soprattutto rompendo la solitudine che è causa prima del desiderio di porre fine alla propria vita. Occorre mostrare nel concreto che la vita del nostro vicino è per noi preziosa e che essa appartiene anche alla comunità.

M.:Secondo la proposta d’iniziativa popolare presentata dall’Associazione Luca Coscioni e dai Radicali non è prevista alcuna possibilità di obiezione di coscienza alle vincolanti dichiarazioni anticipate del paziente. Si vuol far diventare il medico un anonimo esecutore dei desideri del paziente: trova accettabile tale proposta?

G.: Non si tratta purtroppo solo della proposta di iniziativa popolare promossa dai radicali. Anche nelle proposte di SEL e in quella dell’On. Bechis (ex M5S) l’obiezione di coscienza del medico non sarebbe sufficientemente tutelata. Eppure la professione medica ha dovuto confrontarsi fin dai suoi albori con l’obiezione di coscienza (OdC). È noto, infatti, che il rifiuto di aborto ed eutanasia è riconducibile al giuramento ippocratico, che 2500 anni or sono ha fondato l’alleanza terapeutica tra il paziente e il suo medico sul “primum non nocere”, cioè sul patto che lega la fiducia del paziente alla coscienza del suo medico. Ne resterebbe certamente ferita la dignità della professione medica, ridotta a mano esecutrice di qualunque desiderio. A venir meno, però, sarebbe anche la certezza per il paziente che il suo medico non cercherà di fargli del male, né tantomeno si arrogherà il diritto di procurarne la morte quando ritenesse la qualità della sua vita insufficiente.

L’OdC è un diritto proprio di ogni ordinamento liberale, fondato su una visione laica dell’etica, che vede nel primato della coscienza, intesa come «norma ultima concreta dell’agire umano», un suo cardine fondamentale.

L’obiezione di coscienza consiste nel rifiuto di conformarsi ad un obbligo giuridico che la coscienza individuale ritiene ingiusto, in forza di una norma interiore sentita come più vincolante della legge. Presuppone dunque il conflitto tra i doveri contrapposti previsti dalla norma esterna e da quella interiore.

Nelle società occidentali avanzate, la questione dell’OdC è tuttavia ineludibile e si propone in misura crescente per l’attualità di temi bioetici e biogiuridici che coinvolgono i diritti fondamentali dell’uomo in modo nuovo e spesso controverso.

L’OdC non rappresenta un atteggiamento di disobbedienza all’autorità legittima o all’ordinamento giuridico, ma piuttosto una difesa della coscienza del singolo, quando il diritto positivo e le istituzioni mettono in discussione i diritti naturali, primo tra i quali il diritto alla vita.

L’OdC non costituisce una benevola concessione da parte di uno Stato fonte di ogni diritto, bensì un diritto che, al pari del diritto alla vita, lo Stato democratico, se vuole distinguersi dai regimi autoritari, può soltanto riconoscere.

Il rispetto della coscienza dei singoli connota, infatti, soprattutto le democrazie contemporanee pluraliste, in cui la mancanza di valori condivisi non può essere sostituita dall’imposizione per legge di un’etica, se pur maggioritaria.

La questione dell’OdC richiama la concezione liberale a rimanere fedele al primato della persona nei confronti dell’organizzazione statuale, primato che sarebbe minacciato anche dall’assolutizzazione del volere della maggioranza.

Negare questi principi nei provvedimenti con cui si vuole introdurre l’eutanasia nell’ordinamento italiano contribuisce solo a svelarne la natura illiberale, se pure ve ne fosse bisogno.

M.: Uno dei più frequenti slogan a favore dell’eutanasia è “liberi di morire con dignità”. È il caso di ribadire che la vita è degna di essere vissuta sempre, anche nella sofferenza, e che non sono le condizioni sociali e personali a qualificarla. È preziosa in quanto tale. Cosa si cela dietro questo slogan illusorio?

G.: Oggi il posizionamento dell’asticella della vita degna esclude già l’embrione umano. In olanda e in Belgio esclude anche il neonato gravemente disabile, il malato terminale o sofferente inguaribilmente, fosse pure di una sofferenza solo psichica, fosse pure per intolleranza della solitudine.

Una volta ammesso che tocca alla maggioranza degli aventi diritto al voto di stabilire ciò che è degno e ciò che è indegno di essere vissuto, è chiaro che l’asticella potrebbe essere spostata nel senso di un restringimento dei diritti. Per questo occorre riaffermare che la dignità della vita non è un attributo esterno, ma appartiene ontologicamente a ogni uomo. Se così non fosse vi è il rischio che nuove maggioranze o nuovi prìncipi stabiliscano in futuro chi abbia diritto a stare nuove e più ristrette classi di eletti, confinando tutti gli altri a una cittadinanza di seconda categoria.

Quanto al morire con dignità ho ancora negli occhi la frase di una paziente francese sottopostasi a suicidio assistito in Svizzera. Come documentato su Youtube, dopo i mazzi dei fiori e la pozione letale, le ultime parole della paziente furono: “Ah, ma è facile, è come con il cane dal veterinario”!

M.: Accompagnare il malato nella sofferenza e nella malattia è un dovere civico, oltre in che morale. Auspica un rinnovato impegno prolife di accompagnamento del malato capace di rendere umana la sofferenza?

Dopo la stagione dei CAV, noi dovremmo immaginare di dare vita a una nuova fioritura di aggregazioni per accompagnare gli anziani soli, i malati terminali, i dementi, in una parola quanti sono a rischio di finire nel tritacarne della ‘buona morte’. Alla buona morte dell’eutanasia dovremmo incominciare a contrapporre tante moderne confraternite della buona morte, in grado –come nel medioevo – di pregare per i morenti, manche di ridare significato al morire e soprattutto di farsi carico di stare accanto a chi muore, per stringergli la mano e fargli capire che la sua vita per noi è importante fino all’ultimo respiro.

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Il Cav Roma Talenti e tutto il popolo della vita si batteranno affinché nel dibattito pubblico sia riconosciuto il valore assoluto e indisponibile della vita umana. La posta in gioco è troppo alta. Dobbiamo perciò – uniti e compatti – difendere e accompagnare chi vive nella sofferenza. La sfida è culturale.

Massimo Magliocchetti
@MagliocchettiM

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