Pena di morte: il caso dell’Arabia Saudita

Considerata bastione della stabilità in Medio Oriente, potenza regionale grazie alle sue risorse petrolifere e campione dell’islam sunnita, l’Arabia Saudita ammette la pena di morte, anche per decapitazione, e la applica in numerosi casi.

(Ed. Novembre 2015 – “La Voce della Vita”)

In Medio Oriente siamo costantemente colpiti dagli orrori commessi dai terroristi di matrice islamica nei diversi Paesi, primi fra tutti in Iraq e Siria, a causa della presenza dell’ormai famigerato ISIS, o sedicente Stato Islamico. Eppure, c’è un Paese nell’area che non ha nulla da invidiare a questi gruppi in quanto ad esecuzioni pubbliche di detenuti: l’Arabia Saudita. Potenza regionale e campione del sunnismo nel mondo musulmano (ospita al suo interno le città più sacre per l’Islam, ossia La Mecca e Medina), questo Stato è considerato un fattore stabilizzante nell’area e un alleato dell’Occidente. La sua importanza deriva soprattutto dalle immense riserve petrolifere presenti sul suo territorio e nei mari che lo circondano, facendone il primo produttore al mondo di questa risorsa energetica. L’Arabia Saudita possiede una legislazione molto radicale, basata su un’interpretazione restrittiva della legge islamica Shari’ah, e ammette la pena capitale.

Nelle ultime settimane, la questione è stata riportata all’attenzione dell’opinione pubblica dal caso del giovane Ali Mohammed Al-Nimir, un ragazzo che nel 2012 è stato arrestato con l’accusa di aver partecipato a una protesta anti-governativa dichiarata illegale e di detenzione di armi da fuoco. Al-Nimir è stato condannato a morte dopo aver confessato – secondo alcune fonti arabe dopo numerose torture – i reati imputatigli.

Le autorità giurisdizionali saudite possono impartire la pena di morte in base a tre categorie criminali presenti nella Shari’ah: Hudud (crimini previsti direttamente dal Corano), Qisas (il famoso “occhio per occhio”) e Tazir (una categoria più generale di crimini). Gli elementi per essere condannati sono del tutto peculiari, ossia: una confessione non estorta (teoricamente, visto le pratiche di tortura utilizzate negli interrogatori), la testimonianza di due uomini adulti (tranne che per gli Hudud, per i quali serve anche la confessione) e il rifiuto di prestare giuramento. Tra i reati per cui è comminabile la pena di morte ci sono – oltre ad alcuni “classici” come l’omicidio, il terrorismo, lo stupro e la rapina a mano armata – il furto, la blasfemia, la stregoneria, lo spaccio di droga, l’adulterio, l’apostasia (ovvero rinnegare l’Islam), l’idolatria, la fornicazione (rapporti sessuali pre-matrimoniali), il tradimento e la sedizione. La pena può essere eseguita tramite impiccagione, fucilazione, lapidazione e decapitazione. Quest’ultima è la più utilizzata delle quattro e viene seguita, a volte, dalla crocifissione del corpo decapitato per alcuni giorni.

Secondo i dati del Dipartimento di Stato statunitense, tra il 2007 e il 2010 sono avvenute circa 345 decapitazioni mentre per Amnesty International almeno 79 nel solo 2013. L’ultima esecuzione per decapitazione accertata risale all’agosto 2014. Le condanne alla pena capitale sono eseguite pubblicamente e senza preavviso al condannato.

Una nota finale amara: l’Arabia Saudita è stata eletta alla Presidenza del comitato del Consiglio per i Diritti Umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, organo che sovrintende alla nomina di esperti indipendenti i quali analizzano le eventuali violazioni da parte dei Paesi membri.

Emiliano Battisti

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