Pena

Articolo pubblicato su “La Voce della Vita” Ed. Aprile 2016

Pena: probabilmente dalla radice indoeuropea PU-, purificare, ripulire, purgare. lat. Poena, gr. Poiné (da cui l’aggettivo poinaìos: vendicatore, che punisce). In essa ritroviamo due significati:1) vendetta: dal colpito verso il colpevole,semplicisticamente sintetizzabile nella legge del taglione; la vendetta in alcune società non è vista solo come un diritto, ma anche come dovere, e quanto essa non sia perseguibile direttamente dalla vittima, i familiari di questa sono tenuti a farsi giustizia (nell’antica Grecia, come ci mostra l’Orestea di Eschilo, il figlio che non vendichi il padre sarà perseguitato per sempre da spiriti inferi). 2)purificazione:da sempre l’uomo associa al delitto, al peccato, alla colpa, l’idea di sporco ed impuro (non a caso l’espressione:macchiarsi di una colpa). Questa macchia deve essere cancellata, e ne va il bene della società.L’idea di una società da purgare dalle colpe del singolo non deve essere intesa solo in senso utilitaristico, in termini di sicurezza da ristabilire, ma anche dal punto di vista religioso: per gli antichi, la colpa di un uomo ricadeva sulla comunità intera, attirando cattiva sorte. La relazione singolo- collettivo la ritroviamo tanto nella cultura greca (specchiata nelle tragedie di Eschilo, portavoce di una dottrina secondo cui la colpa di un individuo si protrae su tutti i membri della famiglia) quanto in quella romana (dove viceversa il sacrificio volontario di un console poteva portare in cambio dalla sorte la vittoria dell’intero esercito [Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII]).Gli stessi ebrei ogni anno, nel giorno del kippur, tenevano una cerimonia perpurificare la città dalle colpe e i peccati, trasmettendoli tutti ad una capra, poi lasciata vagare nel deserto [Lev. 16, 8-10; 26]. Questa pratica si ritrova anche fra Babilonesi ed Assiri.

Col passare del tempo, si passa da una società della vergogna ad una della giustizia. Lo Stato reclama sempre maggiore spazio, e viene ad assumere il ruolo di “garante di giustizia”, prima assicurato alla divinità. Davanti ad esso l’individuo deve presentarsi. Questo è il bene supremo, che decide la pena. Si passa da un rapporto biunivoco vittima-colpevole, ad un rapporto mediato da un terzo ente, lo Stato.

Compiendo un’analisi generale sulle funzioni della pena, le varie teorie si dividono:

Teoria retributiva– bilanciare le colpe del reo, cioè fargli pagare in modo proporzionale al danno che esso ha arrecato. La retribuzione rappresenta il ripristino della autorità sul singolo.

Teoria della prevenzione speciale– evitare che il colpevole possa delinquere di nuovo, attraverso una rieducazione dell’individuo, detenzione, o anche eliminazione dello stesso. Idea principale è quella della salvaguardia del collettivo dal pericolo dl singolo.

Teoria della prevenzione generale– evitare che la collettività, prendendo spunto dal delitto di uno, delinqua. In questo caso, la pena del singolo diviene exemplum, un metodo di intimidazione per evitare l’anarchia e mantenere il controllo delle leggi.

Per riuscire ad analizzare correttamente le problematiche su questi temi, è necessario tener conto di tutte le funzioni fin qui elencate, in quanto nella realtà pratica le motivazioni si intrecciano e vengono a coesistere.

Ora, la domanda che vorrei porre è la seguente: può esser libero lo stato di eliminare un proprio membro, tramite pena capitale, alienandogli il diritto alla vita, che lo caratterizza innanzitutto come uomo, prima ancorache come cittadino? E’ suo diritto? E’ suo dovere? Il già citato diritto alla vita ha un limite?

 Ma soprattutto: qual è lo scopo che spinge lo Stato a prendere una decisione così drastica?

Il concetto di “purificazione spirituale” del condannato è anacronistica. Del reinserimento nella società, non ha senso parlarne.

Se consideriamo invece lo Stato come protettore dei cittadini, ci si chiede perché una semplice detenzione non possa bastareper tutelare la collettività

Forse esso serve da esempio per la massa. Se anche fosse così, è ammissibile estirpare un diritto inalienabile all’uomo, quello della vita,in nome di una manifestazione di potere? Di un esempio da dare?

La visione a mio modo più comprensibile e palese è la funzione retributiva: lo stato chiede un compenso del delitto, considerato inaccettabile; un tornaconto, che in questo caso è rappresentato dalla vita del condannato.  Allo Stato non basta essere garante di giustizia, ma si presentacome parte lesa, richiedendo lui stesso vendetta del sopruso subito. E la vendetta non tiene conto dei diritti. La vendetta non tiene conto degli errori. La vendetta non tiene conto dei dubbi.

Tollerare ed accettare la pena capitale nel XXI secolo significherebbe negare i passi avanti e l’evoluzione che l’uomo ha portato avanti nei secoli, la crescita e spinta propulsiva insita in ogni essere che l’ha spinto ad aggregarsi, quindi a regolamentarsi, per raggiungere la civiltà. E’ mantenere saldo un filo diretto con la parte barbara di noi, animalesca, ritornando in un passato che non ci appartiene più.  E’ la continuazione del taglione, della vendetta privata, solo fatta in grande stile. In poche parole, la pena capitale è il rifiuto del progresso, e di ciò che di umano ci ancora è rimasto.

Luca Bevagna

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