Sindrome post aborto

(ed. Dicembre 2015 “La Voce della Vita”)

«L’aborto recide un legame profondo e ancestrale, quello della donna con la vita. La donna sa di essere “grembo della vita”, e quando scopre la gravidanza è già madre». Claudia Navarini (docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum)

Questa sindrome, da non molto riconosciuta come tale, specie in Italia, colpisce sia le donne che hanno abortito sia quelli che sono sopravvissuti a un aborto. Esistono associazioni di sopravvissuti, estese anche ai gemelli di abortiti (ossia coloro che sanno di essere stati concepiti assieme ad un altro, poi soppresso) e fratelli (ossia coloro che sanno che la loro madre ha abortito un loro fratello, prima o dopo di loro). Con conseguenze psico-fisiche anche gravi: forti sensi di colpa, risentimento e sentimenti di ostilità e odio nei confronti di colore che hanno contribuito alla scelta dell’aborto, ansia, angoscia, tristezza, senso di vuoto, forme di autolesionismo, ricorso all’alcool o a droghe, disordini alimentari, drastica perdita di autostima. Fino a giungere al più estremo degli effetti: l’istinto suicida. Tutto questo, contrariamente a quanto recita la nostra legge riguardo il diritto all’aborto, mette in dubbio lo scopo principe della legge, ovvero la salvaguardia della salute mentale delle donne. La Sindrome Post Aborto (PAS) è un fantasma che campeggia negli spazi della sofferenza, del tabù della morte, della bara toccata quotidianamente, di una bara che non si vede ma che è dentro alle persone coinvolte in uno o più aborti volontari o anche spontanei. E’ una realtà che ha mille sfumature e tocca altrettante emozioni. Per questo è di fondamentale importanza essere compagni di cammino anche in questa fase. Anche se si è scelta la strada della morte. E’ importante non essere lasciati soli. Difficilmente di fronte ad un bimbo abortito le persone coinvolte sentono che questo bimbo non fosse niente , è andato in niente, nel nulla, è sparito e quindi inevitabilmente pensano che sia da qualche parte, nel Cielo, nel luogo nascosto per eccellenza non necessariamente in senso cattolico apostolico romano. E’ quindi necessario continuare a dare speranza, a dare ascolto. È una ferita profonda del non amare e non sentirsi amati e quando questo verme intacca profondamente le relazioni intrapsichiche e verso l’esterno continua a produrre divisioni, separazioni, malessere sia nella vita personale che nella vita di relazioni come un vortice che trascina verso la morte, la distruzione, il senso di colpa, l’inquietudine. Quel bimbo abortito se non riconosciuto come volto umano del concepito, di quel figlio, con quello che gli è stato fatto, continua ad essere un bambino fantasma, un bambino persecutorio, un malessere magari non riconosciuto subito di una assenza-presente ma che si riverbera nella vita di tutti i giorni e a lungo. L’unico modo per accennare una modesta comprensione di tale patologia è apprendere l’esperienza da una diretta interessata.

“Giulia ha solo 27 anni, ma alle spalle della sua breve vita ha già due aborti volontari, effettuati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, il primo a 17 ed il secondo a 18 anni, ed una depressione scatenata da queste scelte che le ha minato progressivamente le relazioni interpersonali, il lavoro ed il corpo fino a portarla, più volte, sull’orlo del suicidio.

È stato per anni pieno di brufoli il bel viso di Giulia: come quello di un adolescente anche quando adolescente non lo era più. I suoi capelli neri e lucidi si erano diradati innaturalmente. La sua mente faceva  irrigidire il corpo quando si trattava di accettare baci ed abbracci. E un bel giorno persino le sue braccia avevano pensato di tradirla rifiutandosi di funzionare anche per gesti semplici come fare il caffè.

Non si affrettino i ben pensanti ad attribuire una sindrome post aborto così profonda alla morale ecclesiale, perché all’epoca Giulia non frequentava la Chiesa. Ed era così lontana dal pensare che una cosa legale come l’aborto potesse avere effetti tanto devastanti nel vissuto di una donna che ci ha messo anni a capire che l’origine del suo male oscuro era proprio lì, in quel “grumo di cellule”, come le ripeteva chi aveva vicino, che per alcuni mesi le erano cresciute in grembo e che ad un certo punto, senza avere piena coscienza di quanto si accingeva a fare, ha acconsentito a far strappare da sé.

Oggi sta bene, e i suoi occhi sono tornati a brillare di quella solarità connaturale al suo carattere semplice e dolce. Ma perché le cose potessero andare a posto c’è stato bisogno di un lungo lavoro. Non per dimenticare e liberarsi di ingiustificati sensi di colpa: la ricetta dei politicamente corretti. Ma per ammettere la gravità del gesto commesso, elaborarlo e rendersi conto che ad essere sbagliata non era lei, ma la scelta fatta. Una scelta avventata per impedire la quale praticamente nessuno allora intervenne, strutture pubbliche comprese (forse per non influenzare l’esercizio della “libertà”? Per routine?), e che se fosse stata informata, emotivamente non così sotto pressione, sostenuta psicologicamente, indirizzata a strutture di supporto, se avesse saputo che il bambino si poteva lasciare anonimamente in Ospedale, se, se, se, “non avrei probabilmente fatto”, dice. Tempi stretti e anche una innegabile superficialità da parte di diversi operatori incontrati nel cammino, l’hanno portata così dritta a quella che considera “l’azione più grave che potessi fare nella mia vita”. Per Giulia è ancora oggi doloroso ricordare il Calvario di cui ella stessa è stata l’artefice, ma accetta di raccontare anche ad un giornale per “infrangere l’assurdo silenzio che attornia il dolore delle donne che hanno effettuato un’interruzione volontaria di gravidanza – spiega – e che la solitudine rende ancora più profondo. Le mamme, gli operatori devono sapere cosa vuole dire abortire, e se la mia testimonianza può servire ad impedire altri drammi non mi tiro certo indietro”. Tanto più che il vissuto di Giulia non è né più grave né molto diverso da quello di tante altre donne. Ed eccola la storia di questa ragazza, dura e a tratti quasi incredibile per la distanza tra quanto si afferma verbalmente e ciò che in realtà accade nell’iter delle donne verso l’aborto e nel cuore di chi si decide di esercitare questo “diritto” conquista della modernità. “La prima volta che sono rimasta incinta avevo 17 anni – racconta – stavo con un ragazzo che in verità ero in procinto di lasciare perché violento. Non mi sono accorta subito del mio stato, perché non avevo il ciclo regolare ed era per me normale saltare un mese. Del resto non avevo notato nulla di particolare se non che mangiavo solo patate perché non mi andava altro. Poi un giorno vomitai violentemente per un odore intenso. Solo allora mi venne il dubbio e con immensa vergogna andai in farmacia a chiedere il test di gravidanza. Subito mi orientai verso l’aborto: perché ero molto giovane, non volevo che quel ragazzo fosse il padre dei miei figli e pensavo che una cosa legale non potesse essere sbagliata”. Quindi l’incontro con operatore del Consultorio che, responsabilmente, volle che Giulia, allora minorenne, parlasse prima coi suoi genitori (nonostante per la legge non sia indispensabile). “Mia madre fu subito d’accordo mentre ci volle di più per convincere mio padre. I tempi erano tuttavia stretti perché ero già allo scadere del terzo mese, il limite posto dalla legge italiana per l’aborto. In Consultorio, allora, mi fissarono d’urgenza l’appuntamento in Ospedale”. Nessuno psicologo né incontrato né proposto; nessuna delucidazione pratica sull’intervento; nessuno che le abbia citato l’esistenza del Centro di aiuto alla vita. Tempo trascorso tra la scoperta della  gravidanza e l’intervento: 3 – 4 giorni. Una bomba emotiva. Quindi l’arrivo in Ospedale: era la mattina dell’11 settembre 2001: “Lo stesso momento in cui a New York cadevano le Torri Gemelle – evidenzia Giulia – Una singolare coincidenza che ha reso ancora più drammatico il ricordo di quel giorno”. Che peraltro non ha poi mai potuto fare a meno di vivere come anniversario, come nel caso della Pasqua per il secondo aborto, con tutto il dramma legato al rinnovo periodico del dolore. “In Ospedale parlai prima con una donna che penso fosse un medico – ricorda ancora provata – Mi trattava sgarbatamente, forse perché pensava che stessi per fare una cosa orrenda. Ma, mi chiedo oggi, perché non me lo disse e non fece nulla per impedirmelo? Io ero spaventatissima e confusa per l’intrecciarsi di paura ed emozione, anche perché sentivo di essermi già affezionata alla creaturina che cresceva dentro di me. Ebbi solo la forza di chiedere cosa mi avrebbero fatto durante l’operazione, ma ricevetti solo una risposta superficiale in tono sbrigativo, quasi mi stessi impicciando di ciò che non mi competeva. Ho appreso solo qualche mese fa, guardando su Internet, come si effettua un aborto nel primo trimestre, ovvero dell’aspirazione a pezzi del feto. Dei momenti successivi ho rimosso tutto. Mi  hanno solo detto che non ho fatto altro che piangere. Nelle settimane a seguire, tuttavia, non notai nulla di cambiato in me”. Un dato in verità non strano, in quanto la sindrome post aborto matura non nel breve ma nel lungo periodo. “Pochi mesi dopo rimasi ancora incinta, di un altro ragazzo – prosegue il racconto – Mi accorsi ancora tardi del mio stato, perché avevo avuto comunque una sorta di ciclo”. Ed ecco la nuova avventura al Consultorio.
“Mi fissarono  l’appuntamento a ora di pranzo, ma quando andai la dottoressa mi disse che era un brutto momento e che avremmo dovuto fare presto perché doveva uscire per la pausa. Mi toccò la pancia e mi disse che effettivamente ero incinta. Quindi mi indirizzò ad una clinica convenzionata per gli esami in vista dell’aborto. Nessuna ecografia, nessuno psicologo, nessun tentativo di dissuadermi”. Poi l’incredibile: “Al Consultorio non mi fecero fretta perché senza ecografia non mi avevano detto di quale mese ero. Quando arrivai in clinica ebbi dunque la sorpresa di sapere che mi trovavo al quarto mese e che non potevo più abortire. Mi misi a piangere e il medico mi disse che c’era comunque una soluzione: si poteva andare in Nord Europa dove gli aborti si praticano a pagamento fino al quinto mese, e che avrebbero provveduto a tutto loro. Viaggio aereo e alloggio compreso…il tutto a meno di un migliaio di euro. Avevo un’ora di tempo per decidere. Andai in cortile da sola e piansi ininterrottamente. Poi scelsi di procedere. Anche in questo caso nessun percorso alternativo suggerito dagli operatori e nessuna spiegazione sul metodo dell’aborto che, nel secondo trimestre, è un parto prematuro pilotato che per me fu in anestesia totale”. “Nella clinica estera nessuno parlava la mia lingua e si comunicava per gesti – ricorda ancora carica di dolore Giulia – Quando tornai ero così provata  che mi erano cadute ciocche intere di capelli”. Mese dopo mese, poi l’arrivo della depressione, con incubi, progressiva chiusura in sé stessa, pianti continui. “Colori, odori, voci, c’erano mille cose che vivevo con ansia e dolore – dice – Poi ho capito che mi rimandavano agli aborti, e sono arrivata a collegare, anche per i sogni ricorrenti, che tutto il mio male derivava di lì. Comparirono anche pensieri terribili come: ‘ho ucciso e ora devo morire io’”. Poi il lieto fine, con la scelta di aprirsi ad un sacerdote e, poi, l’approdo ad una psicoterapia per sindrome post aborto: “Mi hanno fatto dare un nome a quei piccoli di cui sono stata anche se per poco madre. Non li ho mai visti ma sento che il primo era una femminuccia e il secondo un maschietto. Passo dopo passo ho imparato a convivere con il dolore senza che questo mi schiacciasse. Solo ammettere la gravità di quanto accaduto mi ha dato pace e ha riaperto i rapporti che prima rifuggivo, anche nei confronti dei bambini”. E conclude: “Non si può mascherare la realtà dell’aborto sostenendo che un bimbo nel grembo di una donna non è nessuno e che quindi si può liberamente buttare. Una mamma sa d’istinto che non è così, e non c’è ideologia che possa nascondere questa verità che emerge dal profondo dell’anima da ogni parte, come un fiume in piena, al di là della propria formazione e dei propri pensieri”.

Se si vive una gravidanza non attesa o indesiderata non si è soli. In tutte le città ci sono persone, realtà che possono aiutare concretamente, a seconda della situazione che si vive, nell’accompagnare questa mamma, questo bimbo, questa famiglia. Certo magari, come in molte cose della vita, non sarà tutto facile , sarà sicuramente meno difficile. Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono l’animo può superare molte sofferenze. E se questo comporta la gioia di vedere un bimbo tra le braccia di una mamma, una gioia per questa famiglia è un seme di speranza per il nostro futuro. Penso che questo coraggio di dire sì alla vita sia una speranza per tutti piuttosto che rimanere con la ferita di un bimbo ucciso dentro il proprio corpo, la propria psiche, la propria spiritualità che di conseguenza impoverisce tutti noi.

(Fonte: Cinzia Baccaglini, psicologa e psicoterapeuta con una particolare competenza ed esperienza nell’ambito della sofferenza post-abortiva)

Nel corso del XXVII convegno dei Centri di aiuto alla vita, è stato dato l’annuncio della creazione di un nuovo servizio del Movimento per la vita rivolto alle moltissime donne colpite dalla sindrome post aborto. «Il servizio» spiega Lucio Romano, vicepresidente del Movimento per la vita «si prefigge, almeno nella prima fase un duplice obbiettivo: da un lato incentivare la ricerca su questa sindrome finora quasi sconosciuta agli ambienti medici italiani ma all’estero da tempo approfonditamente studiata, dall’altro formare e sostenere gli operatori dei Centri di aiuto alla vita che quotidianamente incontrano donne cadute in depressione a seguito di un aborto anche remoto». «Il nuovo servizio lavorerà a supporto ed in stretta collaborazione con i trecento Cav sparsi in tutta Italia e con SosVita, la linea verde (800-813000) che da dieci anni raccoglie i problemi e le sofferenze di migliaia di donne alle prese con una gravidanza indesiderata o con un aborto pregresso. Ma non è escluso che in una seconda fase si possa aprire un centro di risposta diretta alle donne» (Fonte: Web-Movimento per la Vita)

Stefana De Angelis

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